... di Matteo Aranci
3B a.s. 2010-11 [oggi si chiamerebbe 5^ liceo classico]
Tra le frasi che con maggior frequenza mi sono sentito rivolgere durante la carriera universitaria (forse qualche volta anche dopo…) è «ah, beh, ma tu hai fatto il classico».
Un vero e proprio refrain, talvolta pronunciato dall’interlocutore con malcelata invidia – quando il
passato “classico” era ritenuto foriero di vantaggi (eh, certo, è per quello che scrivi bene) –, a volte,
invece, detto con quella velata critica di chi pensava che cinque anni a studiare greco e latino fossero
tempo sprecato (altra opinione comune che, purtroppo, dilaga e impera).
In realtà, ho fatto il classico e sono ben felice di averlo fatto, a maggior ragione dove e come l’ho fatto: a dieci anni dalla maturità me ne rendo conto con quella lucidità che solo il tempo sa regalare. E le ragioni non sono certo legate al fatto che io sappia scrivere meglio o peggio dei miei coetanei che hanno frequentato altre scuole. Del greco ricordo a malapena l’alfabeto e il minimo sindacale per far bella figura con l’etimologia di qualche strana parola italiana, con il latino va un po’ meglio – per chi studia materie giuridiche il fascino delle espressioni altisonanti è notevole –, quel che non ho perso è un tesoro ben più prezioso: l’attitudine alla riflessione, l’inclinazione all’approfondimento, la pazienza e la curiosità nello studio, competenze che si formano in quegli anni e che difficilmente si smarriscono.
Altri due elementi contribuiscono a rendere inestimabile quel tesoro: l’amicizia che mi lega ad alcuni
compagni di classe, che è sincera e viva oggi come allora (se non di più) e la stima per alcuni dei docenti che ho incontrato in quegli anni, la quale si è via via trasformata in un rapporto di personale affetto e gratitudine.
Del quinquennio passato sui banchi del Weil – rigorosamente metà in via Galvani e metà al Filandone – ho tanti ricordi. Le memorie più nitide (non solo perché più recenti) sono legate alla terza liceo, da intendersi rigorosamente come l’ultimo anno, chiamarla “quinta”, per chi ha vissuto i tempi del ginnasio, è impossibile: un anno di attese – quando escono le materie, quando si sapranno i commissari, quando tocca a me l’orale –, di scelte – dal semplice “cosa metto nella tesina” al determinante “cosa farò dopo” –, di responsabilità – gli attesissimi 18 anni e le ovvie conseguenze, le più ambite (e sfruttate) le giustifiche firmate da soli e la patente –. Soprattutto, un’ottima palestra per il futuro: agli esami di maturità ho imparato che l’adrenalina può dare ben più di quello che la stanchezza può togliere, che una preparazione solida vale sempre più della sfortuna e di qualche commissario che, nella vita, potrebbe ambire a soddisfazioni migliori che maltrattare il prossimo.
Dal giorno in cui sono uscito dalla (torrida) stanza dove ho sostenuto l’orale della maturità, è iniziato un percorso che aveva un orizzonte chiaro – volevo fare il giudice, una vocazione risalente e per questo difficile da spiegare in modo del tutto razionale – e che, pochi mesi fa, si è felicemente concluso in occasione di un’altra prova orale (quella del concorso a magistrato). Una strada che le esperienze, le competenze, le amicizie maturate al liceo hanno reso davvero meno ardua.
[testimonianza raccolta dal prof. Chiari]